Ecco pubblicata la Newsletter del Team Giovani Caritas di autunno 2025. Il tema che vogliamo proporre è quello della guerra. Per saperne di più
Viaggio a Gaza
Questa è una storia vera. Le persone menzionate sono reali: solo, i loro nomi oscurati, dettagli personali superati, a tutela della riservatezza e incolumità della famiglia.
Nei primi giorni del mese di agosto sono stata contattata da una donna meravigliosa, che ha dedicato la sua vita alla danza e a farsi strumento di pace in Terra Santa. Mi ha raccontato la storia di un suo caro amico medico, residente in Gaza city, che sognava di specializzarsi in Europa. Ha chiesto il mio supporto legale per aiutarlo a realizzare quel sogno. In quei giorni Gaza erano per me fogli scritti di giornale, immagini flash al TG, appelli disperati di bambini urlanti per le amputazioni senza anestesia. Non immaginavo che le bombe avrebbero scossa anche me, al punto di farmi addormentare a fatica. Quel sogno era la corda che un nuovo amico mi porgeva quando il fango stava per chiudersi — l’unica promessa di salvezza.
Il mio viaggio a Gaza è iniziato così. Il mio amico fa parte di una famiglia palestinese cristiana residente nella città di Gaza. Rientra quindi nella minoranza religiosa che conta all’incirca 900 famiglie. Solo una settimana dopo il 7 ottobre 2023, l’esercito israeliano aveva ordinato una evacuazione di massa dal nord al sud della Striscia, obbligando tutta la famiglia ad abbandonare la propria casa. Come cristiani, avrebbero affrontato enormi difficoltà nello spostarsi, poiché l’integrazione in comunità sconosciute sarebbe stata complessa. Senza alternative, hanno trovato riparo in una delle due chiese (sempre nella principale città della Striscia), insieme a moltissime altre persone. Durante la prima tregua del 6 gennaio 2024, quando sono riusciti a tornare nel loro quartiere, hanno dovuto prendere atto che la loro casa era stata bombardata, di come l’incendio aveva cancellato la memoria di quel luogo. Erano rimaste pareti annerite e macerie. L’appartenenza ad una minoranza religiosa espone le famiglie di Gaza a discriminazioni continue, da parte dei consociati e delle autorità “politiche”.
Poco dopo lo scoppio della guerra, il mio amico, medico, aveva partecipato e vinto un bando indetto dal Ministero della Salute per pochi studenti, per l’erogazione di una borsa di studio che non gli è mai stata assegnata in quanto non di fede musulmana. Con la sua famiglia ha vissuto per quasi due anni in una piccola aula della chiesa, dormendo in terra e condividendo risorse minime con centinaia di persone, senza accesso a cibo adeguato, acqua potabile, elettricità o cure mediche, cucinando su fuochi di legna, quando trovavano qualcosa da mangiare, mentre i farmaci erano e sono difficilmente reperibili. La sua storia, simile a quella di molti altri, si inserisce nel noto contesto di disumanizzazione imposta, più ampio e drammatico. Secondo i dati ONU, dal marzo 2025 oltre 767.800 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, con crescente rischio per donne e ragazze nei rifugi sovraffollati (dati OCHA).
I suoi fratelli, ugualmente giovani e brillanti professionisti, diversamente dal medico non riponevano alcuna fiducia nella possibilità di uscire da quell’incubo. Rassegnati a quella realtà, aspettavano solo la morte. Nonostante le condizioni disumane e la mancanza di risorse, il medico si è fatto carico della gestione sanitaria del rifugio (in cui alloggiavano circa 600 persone), ed ha trovato poi lavoro in una piccola clinica, tirata su anche grazie alla Caritas. Le persone che accedono alla clinica sono perlopiù vittime di infezioni, traumi, virus. E quando gli domando dove si concentrano la carestia ed i bambini malnutriti lui mi risponde “they are anywhere“. Secondo l’ONU (OCHA, luglio 2025), la carestia stringe ormai tutta Gaza: tra ottobre 2023 e luglio 2025 si contano 154 morti per malnutrizione, di cui 89 bambini (OMS). L’81% delle famiglie ha un consumo insufficiente di cibo e il 24% è già in condizione di fame grave. L’IPC conferma che lo scenario peggiore — la carestia su larga scala — è in corso, con meno del 15% dei servizi nutrizionali ancora operativi (OCHA, 31.07.2025, United Nations News).
Lavorare come medico a Gaza non significa soltanto curare, ma anche difendersi. La fame spinge molti a fingersi malati per ottenere medicine da rivendere. Al rifiuto dei medici, spesso scoppiano risse o vengono puntate pistole contro il personale sanitario — perché la carestia riguarda gli aiuti, non le armi. Il vuoto istituzionale ha permesso il proliferare di sciacalli e bande armate, che agiscono nella più totale impunità.
A causa dei continui bombardamenti, nemmeno le chiese sono ormai rifugi sicuri. Nel nord di Gaza ne sono presenti solo due: S. Porfirio e la Sacra Famiglia. Quanto alla prima, a seguito di un bombardamento aereo, vi hanno perso la vita 19 persone. La chiesa della Sacra Famiglia, invece, è stata oggetto di un triplice attacco: nel primo, le forze di terra israeliane hanno colpito e ucciso a distanza due donne; nel secondo, hanno bombardato l’ultimo piano del rifugio che ospita i bambini con malformazioni gravi, abbandonati alla nascita dalle proprie famiglie, e dei quali la comunità cristiana si prende cura; l’ultimo, del 17.7.2025, ha visto il colpo partire da un carro armato, che ha causato la morte di 3 persone, ferendone 8. Secondo l’International Crisis Group, solo a giugno 2025 sono stati uccisi almeno 2.000 palestinesi, portando a oltre 56.500 le vittime civili dall’ottobre 2023. Dal maggio 2025 le forze israeliane hanno inoltre aperto il fuoco quasi quotidianamente su civili in fila per ricevere aiuti, causando almeno 580 morti e oltre 4.000 feriti (International Crisis Group, giugno-luglio 2025). Così, la famiglia è tornata a riparare in quel che rimane della propria casa. Un edificio spogliato di tutto, tranne dell’albero di ulivo che i soldati avevano abbattuto in cortile, e che ritenendo utile la famiglia aveva collocato e conservato nella propria abitazione. Quei rami hanno scaldato cibo, in un forno costruito artigianalmente. Il mio amico e i suoi fratelli mi hanno scritto ogni giorno.
Fino al 10 settembre, mi scrivevano spesso, ogni 2-3 ore. Erano felici di sentirsi “visti”, e credo che in quella finestra sull’Italia avessero trovato il proprio modo di dissociarsi dall’inferno. I momenti che custodisco con più affetto riguardano i ricordi dell’Egitto, dove il mio amico ha vissuto, e dove desiderava tornare. La sera fumava narghilè con gli amici, ma il cibo, mi confessava, è migliore in Palestina. Ricordo anche la sera in cui mi disse che finalmente, dopo anni, aveva vista una scintilla accendersi negli occhi dei fratelli, che, grazie anche al mio supporto, avevano riacquistato fiducia nella possibilità di emanciparsi, di lasciarsi alle spalle quella enclave di dolore e disperazione. Non mi hanno mai raccontato dei loro traumi — li ho scoperti solo a posteriori. I nostri scambi, tra note vocali e il ronzio dei droni in sottofondo, ruotavano attorno a questioni legali, desideri, passioni, al sapore dello shish barak e a inviti a cena sempre ironici, riservati a me, quando, dopo tre anni di eroica ricerca, riuscivano finalmente a mettere le mani su frutta e verdura. Un attaccamento soprannaturale alla vita.
Con l’ultimo attentato di Gerusalemme (10 settembre 2025), la situazione ha trovato il modo di inasprirsi ancora di più. Il dialogo si interrompeva continuamente per la scarsa linea internet, le bombe cadevano come pioggia. Le malattie e la stanchezza poi facevano il resto. In questi mesi ho lavorato molto per il mio amico, i suoi fratelli, i genitori. Posso dire che la mia vita era completamente “loro”. Ogni giorno in cui la connessione saltava e non ricevevo risposte, per me era un funerale laico senza corpi. In questi mesi ho conosciuto questa storia, e molte altre: quella di Abdellah, 14 anni, a cui gli ospedali non possono cambiare la batteria del dispositivo che dovrebbe impedire le sue crisi epilettiche; Muhammad, 9 anni, colpito da schegge esplosive che dal 2024 gli avvelenano i tessuti interni; Ahmed, 3 anni, che giocava con i compagni quando, da un drone, è caduta una bomba sul suo asilo, disintegrandogli l’arto sinistro; di Nour, 9 anni, a cui una bomba ha strappato entrambe le gambe, un braccio e, soprattutto, il fratello maggiore; e molti altri nomi. C’è ancora molto lavoro da fare, tanti i nomi per cui spendersi, in ogni modo possibile. Ma oggi voglio festeggiare, perché il mio amico si trova in Europa, in un Paese sicuro, e ho già abbracciato i suoi fratelli all’aeroporto di Fiumicino. “This is God’s hand”, mi dice uno di loro, “this is what we call a miracle”.
C’è dentro di noi una sorgente inesauribile di vita: un motore silenzioso e instancabile che si chiama amore. È ciò che ci spinge a correre, a sognare, a prenderci carico di situazioni più grandi di noi, con dedizione e concentrazione che a volte nemmeno sospettiamo di possedere. Come quando la mola incontra il metallo e nascono scintille, così gli sforzi hanno luce propria quando si fondono con la vocazione. Ho compreso così il senso di tante scelte, la ragione della perseveranza con cui ho inseguito una carriera che spesso mi è sembrata persino troppo stretta addosso. Era il futuro che mi chiamava, con forza, in questa direzione. Questo il momento che aspettavo da tutta la vita. E non è solo lavoro: è incontro, prossimità, non avendo accompagnato clienti a un tavolo ma accolto persone. Proteggiamo la vita e la dignità umana, sempre.
La condotta israeliana, secondo diverse fonti ONU, presenta caratteristiche riconducibili al genocidio, con l’imposizione deliberata di condizioni di vita intese a portare alla distruzione fisica, totale o parziale, del popolo palestinese (A/HRC/60/CRP.3, 16 settembre 2025; OHCHR, 11.11.2024; HRC, Report A/HRC/59/23, 30.06.2025).
Se non ora, quando? Questa storia non è finita: sono tanti i momenti belli e gli insegnamenti che questi miei fratelli mi lasciano ogni giorno, ma il nostro viaggio, insieme, a Gaza, si conclude qui. Mi incontrerò presto con il mio amico e gli altri due fratelli, e sono certa che sarà un momento ancora più bello di questo.
Silvia Giannini
Giorgio Caproni e la guerra
Bibbia
Ah mia famiglia, mia
famiglia dispersa come
quella dell’Ebreo… Nel nome
del padre, del figlio (nel mio
nome) ah mia casata
infranta – mia lacerata
tenda volata via
col suo fuoco e il suo dio.
(Giorgio Caproni, da Il muro della terra, 1975)
Il muro della terra, il libro più famoso di Giorgio Caproni (1912-1990), è interamente costruito sulla rima interna «terra» : «guerra». Non si tratta soltanto di una guerra ironicamente giocata attraverso la presa in giro del maschilismo giovanilistico, esaltato e bellicoso che portò alla Prima e poi alla Seconda guerra mondiale (di cui sono esempio i versi di Celebrazione: «I morti. // Per la libertà. // Sono tutti sepolti»): si tratta soprattutto di una guerra interiore homine, che penetra fin nelle ossa, esistenziale e ineliminabile, segnando universalmente la condizione di ciascuno di noi.
Il soffocamento storico della Seconda guerra mondiale (ma la storia è contemporaneamente il percorso di una vita e il discorso storico) porta Caproni a scrivere versi che parlano di un mondo cancellato o in progressiva cancellazione, un mondo non più percorribile, di «silenzio ossuto», dove persino la pioggia, con i suoi «fili / d’acciaio», diventa un’arma; un mondo residuale dove «bisogna morire» tutti, «lanciarsi. Allo sbaraglio»; dove il «cuore» è coperto dall’«ovatta del cannoneggiamento» e il cielo attraversato dal «lampo del bengala», allora come oggi; dove non ha più senso nemmeno piangere («Sanno / che lo sterminio forse / li ha preceduti. E quasi / piangerebbero, se ora / il pianto avesse un senso»); dove le istituzioni fondamentali che l’umana civiltà ha costruito, civiche, religiose, familiari, sono state bruciate tutte («Hanno bruciato tutto. / La chiesa. La scuola. / Il municipio. / […] Bruciata anche l’osteria. / Anche la corriera. // Tutto. // Non resta nemmeno il lutto»).
In Bibbia, la poesia sopra riportata, Caproni evoca proprio la condizione della diaspora: la «famiglia dispersa», la casata / infranta», la «lacerata / tenda». E nonostante questo, il poeta non smette mai di cercare Dio, anche se un Dio che sembra non poter più esistere dopo l’orrore, in mezzo all’orrore, della guerra, ma pure viene evocato continuamente, ossessivamente: «Lo vidi, la faccia spaccata / sui coltelli: gli scisti. / Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti?»; «Il bambino che vinta / infine la vergogna nera / di credere […] come potrà, mio Dio, / come potrà poi senza / odio perdonarti il furto / della tua inesistenza?»; «Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / – almeno – d’esistere» . Così, anche in un libro rosso acciaio come Il muro della terra, si può trovare un filo di speranza, un filo legato non al presente, ma alla possibilità di un futuro (per quanto lontano, lontano, lontano) che forse potrà ancora aprirsi, a frattura superata. Caproni ne parla, fra le altre, in una poesia dedicata A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, che comincia appunto con i versi «Portami con te lontano / …lontano… / nel tuo futuro».
Giulia Martini
Sicurezza e immigrazione
Il 22 agosto, in una sera di fine estate, ero appena tornato a casa, in Via Palestrina, quando ho sentito un trambusto seguito dal suono delle ambulanze. La strada in cui abito da oltre 25 anni era diventata la scena di un’aggressione brutale, le cui immagini sono poi circolate ovunque. Questa vicinanza della violenza al mio mondo quotidiano mi ha causato una profonda angoscia e paura, la stessa che provano in molti quando la sicurezza sembra svanire. Eppure, in mezzo a quel caos, ho visto l’umanità dei vicini che si sono precipitati per soccorrere, per chiamare i servizi di emergenza. Ho visto la dedizione dei volontari e l’impegno delle forze dell’ordine.
In quei momenti, il male della violenza è stato contrastato da un bene più grande: quello del prendersi cura. Davanti ad un episodio del genere è naturale che la maggior parte delle persone presenti nutrisse un senso di insicurezza e inquietudine. Il problema della mancanza di sicurezza si è fatto prossimo e non celato.
Ma non può bastare la descrizione dell’episodio e l’affermazione dell’insicurezza, è necessario comprendere le ragioni e trovare risposte efficaci per contrastarla. In questo caso, come in altri del nostro territorio, la colluttazione ha visto partecipare persone immigrate. Questo ci deve far riflettere su come ci siano delle persone che abbiano la necessità di trovare vie alternative alla violenza stessa. Si evince da questa faccenda che ci sia un problema nei percorsi di integrazione, poco praticati e strutturati nel nostro territorio. Per troppo tempo abbiamo deciso di mettere sotto il tappeto il tema, sviando la discussione utilizzando facili slogan, senza riflettere sulla gestione del fenomeno migratorio, ineludibile nell’attuale contesto mondiale. Vi è invece la necessità di approfondire, di osservare e di strutturare delle strade affinché l’integrazione non sia vista come un’inutile spesa ma non siamo nemmeno una parola vuota di significato, a cui non sono mai state date le gambe e le risorse adeguate.
Vi è la necessità di dare a queste persone la possibilità di vivere in questo paese in maniera accettabile, attraverso il riconoscimento della loro presenza e la creazione di un successivo percorso capace di trasmettere le regole e la cultura del nostro Paese. Innanzitutto, è necessario investire proprio sull’educazione di queste persone, in modo da trasmettere loro la nostra cultura e le nostre leggi. In secondo luogo, credo che si debba spiegare in maniera chiara quale sia il percorso per chi vuole vivere e lavorare in Italia, senza zone d’ombra che generano ingiustizia e sfruttamento. Ed infine, per cercare di eliminare ogni tipo di violenza dobbiamo assolutamente promuovere il confronto tra le diverse popolazioni, superando i pregiudizi e creando spazi di reciproca comprensione.
Il primo passo per cercare piste di integrazione è quello di uscire da una discussione polarizzata, che non mette in condizione chi ha voce in capitolo di elaborare strategie serie sul tema. Noi cittadini abbiamo un compito importante in questo, dobbiamo cercare di non cadere nelle risposte facili ad un problema complesso, bensì abbiamo il compito di essere i promotori di un cambio del metodo con cui si prendono le decisioni, su questa ma anche su tante altre questioni. Per chiudere, abbiamo la necessità di trovare spazi e luoghi in cui discutere sul tema dell’integrazione.
Ritengo che anche la Chiesa pratese possa essere un’attrice importante per promuovere una riflessione importante su questo. Non dobbiamo perdere la speranza di costruire una comunità connessa e solidale sul nostro territorio. Ripartire dall’esempio delle persone che si sono fatte immediatamente prossime a questi ragazzi messi a terra durante l’aggressione è fondamentale. C’è stato infatti chi ha prontamente prestato i primi soccorsi, chi ha chiamato le autorità, chi le ambulanze. Anche i soccorsi e le forze dell’ordine sono stati essenziali per rispondere a questa situazione.
Il grido di pace e amore, che è risuonato più volte nelle preghiere e nelle iniziative per la risoluzione dei conflitti nel mondo, deve essere ascoltato anche qua, nei nostri territori, davanti agli episodi di violenza, a quelli di sfruttamento lavorativo e a tutto ciò che lede ad una serena vita nei nostri territori.
Fulvio Barni
“Era una vita che non correvo in un prato”
“Era una vita che non correvo in un prato”. Michel pronunciò queste parole sorridendo, mentre riprendeva fiato, con le mani sui fianchi. Ricambiai il sorriso, ma rimasi muto. Le sue parole, spontanee e gioiose, mi avevano commosso profondamente: due settimane prima di questo episodio, al termine di una pena di tre anni, Michel era uscito dal carcere. Quel giorno mi trovavo con lui in campagna nei pressi di Grenoble, nel sud della Francia, in occasione di una gita organizzata dal Grain de sel hors-les-murs (“Il chicco di sale, fuori le mura”), associazione di cui ho fatto parte come accompagnatore durante un mio lungo soggiorno oltralpe.
Il Grain de Sel opera nella città di Grenoble da quasi 15 anni, e come suggerisce il nome ha come desiderio quello di offrire un chicco di sale che aiuti a ritrovare il gusto della vita. L’associazione si rivolge a qualsiasi persona in difficoltà, come i senza dimora, chi soffre di dipendenze da droghe e alcol, chi vive nell’emarginazione.
Ciò che veniva richiesto a noi accompagnatori era semplice ma radicale. Mi ricordo in particolare due indicazioni dateci da Claire, fondatrice e pilastro del Grain de Sel: la differenza di status sociale tra accompagnatori e accompagnati deve scomparire; infatti, “se siete abituati ad usare piedistalli, lasciateli a casa, perché qui siamo tutti uguali”; i poveri hanno bisogno di aiuti concreti, ma anche e soprattutto di esistere per qualcuno, quindi “chiedete sempre il loro nome”. È per questo stesso motivo che, nella cucina della sede, la parete è tappezzata di tazze personalizzate: ognuno ha la sua.
Bastarono le prime distribuzioni di alimenti e i primi incontri con gli invisibili della società a mettermi davanti agli occhi, in maniera inequivocabile, tutti i privilegi di cui la mia vita era costellata: una stabilità economica che mi permetteva di scegliere dove vivere, o cosa e quanto mangiare; una famiglia che si preoccupava di me; amici con cui confidarmi e passare del tempo. Perché io avevo tutto questo e loro no? Questa domanda aveva scatenato in me un forte senso di colpa, ma con il tempo ho capito che quel senso di colpa doveva trasformarsi in qualcos’altro se non volevo che questo servizio diventasse uno strumento per lavarmi la coscienza. Credo che riconoscersi fortunati non debba colpevolizzarci ma anzi renderci grati al Signore per i doni di cui la nostra vita è piena: solo così possiamo veramente metterli a disposizione degli altri ed essere testimoni di speranza.
Ormai sono rientrato in Italia da più di due anni, ma l’esperienza del Grain de Sel ha lasciato un’impronta indelebile nella mia vita. In associazione ci dividevamo tra accompagnatori ed accompagnati, ma sinceramente non so su quale sponda mi trovassi. Quanti insegnamenti, quante “lezioni” gratuite ho ricevuto dalle persone che cercavamo di aiutare. Eva, Lucas, Simon, Thomas, Annie, Manon, e tanti altri ancora mi hanno mostrato cosa vuol dire essere umili, veri, invincibili.
Umili, perché accettando le miserie della propria vita hanno avuto il coraggio di chiedere aiuto. Quante volte invece l’orgoglio mi fa credere di poter salvarmi da solo?
Veri, perché ammettendo il rischio di scandalizzare non hanno avuto paura di mostrarsi così come erano. Quante volte invece porto delle maschere per nascondere i miei limiti al prossimo?
Invincibili, perché come dice Erri De Luca parlando di Don Chisciotte, invincibili non sono quelli che vincono sempre, ma coloro che continuamente battuti e feriti dalla vita non cessano di rimettersi in piedi per battersi di nuovo. Quante volte invece, io, ho gettato la spugna al primo ostacolo? – “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome” (Isaia 43,1) –
Scrivere queste righe mi ha spinto a riguardare qualche vecchia foto sul telefono. Mi sono accorto solo adesso che quel pomeriggio in campagna insieme a Michel non era una data qualsiasi, ma il giorno dopo Pasqua. Con il cosiddetto Lunedì dell’Angelo ricordiamo l’annuncio della resurrezione di Gesù. Non sapevamo nulla della vita di Michel, né tantomeno conoscevamo il motivo della sua reclusione. Aveva fatto degli errori, e per questo aveva passato tre anni in carcere, ma se ci riteniamo cristiani dobbiamo avere il coraggio di credere che ognuno di noi abbia il diritto di ripartire, di risorgere.
Mi vengono in mente queste parole attribuite a papa Giovanni XXIII: “Quando incontro qualcuno non gli chiedo da dove viene. Non mi interessa. Gli chiedo dove va. Gli chiedo se posso fare un pezzo di strada insieme a lui”. Camminiamo allora insieme ai piccoli, e facciamoci aiutare ad essere umili, veri e invincibili.
Marco Piantini
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